Pedagogia del dolore
Contro la pedagogia della felicità. Per una pedagogia dell’“esserci”
Sempre più spesso vedo fiorire, nelle scuole e nei progetti educativi, iniziative che parlano di felicità, che promettono benessere, positività, emozioni buone. Si parla di “pedagogia della felicità”, come se l’adolescenza fosse un’età da proteggere con zucchero filato e parole leggere.
Eppure, la mia esperienza quotidiana con gli adolescenti dice altro.
Dice che quello che cercano davvero – anche quando non lo sanno dire – è uno spazio dove poter abitare il dolore, comprenderlo, attraversarlo.
Non chiedono scorciatoie. Non cercano una felicità preconfezionata. Spesso, mi parlano di lutti imminenti, genitori che stanno morendo, famiglie che si sbriciolano, solitudini profonde che la scuola nemmeno sfiora.
Quale felicità?
L’adolescenza non è – e forse non è mai stata – l’età felice. È l’età del conflitto, della ricerca, della frattura tra ciò che si è stati e ciò che si potrà diventare. È l’età della crisi, della consapevolezza nascente, dell’urgenza di significato.
Serve, allora, una pedagogia dell’esserci.
Una pedagogia che non promette sorrisi, ma che insegna a stare. A nominare il dolore. A trovare parole per ciò che lacera. A sentire che si può cadere, eppure restare umani.
Educare non è proteggere dal buio. È accendere una lanterna e restare accanto, senza fretta di guarire.
Lì, nel mezzo del dolore, può nascere – a volte – una forma più vera di felicità: quella che ha fatto amicizia con le ferite.